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I miei personaggi sono impregnati di paura.
Il continuo rapportarsi con altri individui li ha stremati, hanno perso ogni forma di fiducia scegliendo di schermarsi dietro un confine che garantisca loro protezione, al sicuro nel loro micromondo ovattato.
I miei personaggi preferiscono i tenui grigi ai colori abbaglianti e vivaci dell’odierno nulla.
Grigio è staticità. Grigio è tranquillità.
Grigio è la pacatezza di un limbo materno che riscalda e ripara nella sua nebulosa placenta.
Singolari autoritratti giocati sull’ambiguità di una cattiveria feroce travestita da tristezza velata ma inesorabile.
Oppure maschere che coprono volti in modi assolutamente sfacciati, rivelando un erotismo insolente al limite di un esasperato feticismo. Ma non tutto quel che appare al primo sguardo, è verità.
La maschera è solo un pretesto. Può esserci oppure no. E’ un feticcio fittizio, presente anche quando non appare o si mostra sotto forma di altre geometrie arcane, decorazioni tribali o sigilli. E’ la ricerca spasmodica di un’identità altra, forse impossibile da trovare.
I miei personaggi, sono improbabili ragazze con maschere antigas, uomini d’affari in completo elegante o caricature disturbate di fiabe vintage, ma sono prima di tutto archetipi, icone, rappresentazioni simboliche di uno status mutante al quale in fondo apparteniamo un po tutti o forse desidereremmo appartenere ma che il nostro posto nella società ci impone di rinnegare, emarginare e circoscrivere come entità estranee da cui prendere le distanze.
Personalmente la diversità mi attrae, quell’ambivalenza/duplicità della natura umana che può allontanarmi anche solo per un attimo dal disagio sociale, dal conformismo a tutti i costi, dalla perfezione, dall’essere così irrimediabilmente inseriti in un perverso meccanismo di (ri)produzione.
Una subdola, nauseante ragnatela che imprigiona giorno dopo giorno.
Con le mie immagini digitali cerco di fotografare ed impressionare la parte notturna dell’essere umano. La maschera copre ogni possibile emozione, ogni tratto somatico tramutando le spoglie figure in materia senza nome e senza passato, pronte ad accogliere una nuova forma.
Come sparuti osservatori i miei personaggi si muovono incerti in un universo sconosciuto dominato dal caos.
Surreale e onirico è il mondo di Stefano Bonazzi. Il giovane artista di Ferrara, vincitore della terza edizione di IHAVE@DREAM, mette in scena favole dark, ciniche e disilluse. I suoi mondi visionari non lasciano spazio a nessun happy ending, destabilizzano, inquietano.
Sono bad dreams perché raccontano l’incerto, il disagio contemporaneo. E questa visione disincantata dei nostri giorni si riversa sulle sue elaborazioni digitali, squisitamente pittoriche e dolcemente allucinogene.
L’opera “A bad dream” riassume in maniera esaustiva il suo immaginario poetico: personaggi (o presenze?) angoscianti, prospettive deformate, cromie cupe, storia scevra da ogni logica e da qualsiasi lieto o infausta fine che sia. Un rebus onirico in cui l’irrealtà si presenta come reale e dove la fantasia non è poi così lontana dalla realtà.
Vanessa Viscogliosi (IHAVE@DREAM – 2008)
L’artista parte da immagini fotografiche rielaborate con approfondita meditazione. Cortocircuiti visivi nei quali i volti sono nascosti da maschere. Apre il sipario a figure immobili sospese in uno spietato equilibrio incerto. Colpiscono le composizioni metafisiche, stranianti, in cui tutto è dove non dovrebbe essere: caos calmo. Analisi disillusa degli stati d’animo dell’essere, frutto della sua visione cinica che induce a soffermarsi sull’asprezza della società.
L’artista rielabora le proprie sensazioni e le veicola con un linguaggio artificiale interprete di visioni distaccate della realtà, pur sviluppandosi da essa. Questa artificiosità è volutamente esasperata. Le sue rielaborazioni digitali sono create con le stesse tecniche con cui si producono le immagini “caricate di falsi colori” – come si evince dalle parole dell’artista stesso – della mercificazione pubblicitaria che anestetizzano i sensi. La diversità è negli intenti. Anche le sue, sono immagini ingannevoli.
A primo acchito, potrebbero suggerire mondi di assoluta tristezza, mondi dai quali mai più svegliarsi o far ritorno, mondi senza alternativa, catastrofici: The last day on earth; A bad dream; Dreamland; Neverland e Scaryland. Nelle sue opere le persone sono immobilizzate, ma dal frastuono della società.
Si chiudono nel silenzio di se stesse, ma la loro è una condizione transitoria, mai definitiva in quanto a muoversi è il loro pensiero, il loro stato emotivo che da solo, può superare la cecità interiore. Stefano Bonazzi sfruttando il linguaggio della comunicazione pubblicitaria insieme a stranianti associazioni figurative – rese in tonalità ridotte di colore, tendenti ai grigi – riesce a sovvertire e nel contempo a stimolare le percezione emotive. Le sue tormentate figure sono immerse in luoghi mentali, trasognati, incantati che ci lasciano sbigottiti.
Creazioni sospese in un equilibrio instabile, afono, che oscilla tra pacatezza e inquietudine, realtà e visioni allucinate, che creano spazi disorientanti. La sua non è, però, un’astrazione dalla concretezza materiale, un rifugio isolato senza meta, lontano dagli eventi circostanti. Bonazzi parte dalla lucida presa di coscienza di ciò che ci circonda per stimolare l’osservatore a raggiungere una destinazione possibile, alternativa al disorientamento.
I Cattivi sogni traducono, in immagini, stati d’animo come lo smarrimento e l’incertezza dell’individuo, perso nella ricerca mentale di se stesso e di una posizione nel mondo. Ciò è espresso anche dalla disposizione straniante delle figure che compongono le sue opere. Tutto è decontestualizzato, come se ogni cosa avesse perso il proprio posto abitudinario sulla terra e venisse spostato come pedina inconsapevole nella scacchiera della vita.
Con la tecnica adottata, per alcuni aspetti iper-reale, l’artista tenta di svelare ciò che è celato e soffocato dai camuffamenti odierni. Infatti, le sue composizioni stimolano la curiosità, spingono a oltrepassare l’immagine superficiale per vedere con lo sguardo della coscienza una realtà più reale del reale.
Carmen Tatò (StatArt)
La fotografia è uno spazio nel tempo, un posto in cui si può congelare la realtà e darle diversi sensi, artistici e infiniti. L’immaginazione è quella che segna il ritmo, quella che permette di approfondire questi sensi e incrociarne le dimensioni. Dal realismo più puro si può raggiungere la più assoluta astrazione, il sottile minimalismo o immergersi nelle profondità del subconscio. L’artista è colui che sfida le leggi dell’arte, quello che deve spogliarsi di tutta la logica ermetica e aprire le porte per non rimanere intrappolato nella gravitazione del comune, della noia visiva e, di conseguenza, non può permettersi di rimanere ancorato al terreno. Deve raschiare il guscio e trasgredire, esplorare, interpretare, quella è la chiave del senso fotografico.
Per questo la fotografia è tanto ricca, perché a margine di critiche, tendenze, scuole e temi, l’autore è quello che fissa su carta il proprio destino artistico. Nessun autore è identico e, anche se a volte si riscontrano certi temi simili, c’è sempre una singolarità speciale che li differenzia.
Stefano Bonazzi è un giovane artista emergente e autodidatta, il che significa forza, novità e illusione, capace di acchiapparti nella sua magia iperdimensionale nel solo guardare qualunque dei suoi lavori, tutti quanti pieni di messaggi e riflessioni profonde; il suo lavoro è una sintesi filosofica di un dramma imperituro, che cerca sempre il significato concettuale di ciò che sente e immagina.
Alienazione e vacuità: l’esaurimento dell’essere
L’opera di questo italiano nato e cresciuto a Ferrara, riconduce verso quei processi esistenziali, sull’esaurimento dell’essere, la sua visione può essere più intrepida che raffinata, un incubo che ci fa digerire lentamente i nostri possibili futuri.
La macchina fotografica di Stefano Bonazzi ci immerge in un viaggio apocalittico, attraverso dimensioni impregnate di atmosfere che emanano delle seduttrici tristezze e diverse sensazioni contrastanti. È un magma razionalizzato, che ci fa bollire la psiche come il metallo liquido, vivo, rosso e pulsante.
I suoi bizzarri personaggi ispirano una specie di occultismo futuristico, un’approssimazione anodina relativamente pagana, con delle pennellate statiche che si combinano ad elementi sottilmente grotteschi. La melancolia slegata sembra un’alternativa d’evasione allo spettatore che affronta il risonante archetipo della fine.
Con lui, la Fotografia recita come una psicanalisi, una purga psichica che ci riporta a una realtà cosciente, terribile, come un flash accecante che trascende la sua propria essenza. Sono colpi che penetrano in tessuti diversi, che screpolano mondi frammentati e occulti. La Fotografia è, in questo senso, un terapeuta che si copre di essenze multidimensionali.
Articolo a cura di Carlos Flaqué Monllonch per il Magazine Luz y Tinta
Traduzione a cura di Luis Arturo Hernández Basave
Emblematiche, surreali, dark.
Le rappresentazioni del giovane artista, Stefano Bonazzi solcano il labile sentiero del subconscio, calpestandolo a colpi di inquietitudine e mistero: trasudano spruzzi di quotidiano, ma il tutto è avvolto da un alone scuro, apocalittico, irrisolto. La capacita’ del fotografo sta nel creare attesa, nel porre quesiti esistenziali al quale egli stesso non sa porre certezze.L’emblema dell’ opera in sè e la sua inequivocabile ambiguità, crea riparo emotivo al soggetto ritratto e a chi lo osserva, ovattandolo nel proprio io, nel mondo irreale da lui creato come unico appiglio o via di fuga dall’ordinario, come a dire ti offro il cupo e l’incerto ma il tutto è circoscritto in un unico fotogramma, sei “salvo”.
Gli stessi protagonisti, non trapelano nessun tipo di alibi, nessun tratto somatico o espressione del viso, a cui aggrapparsi: spesso mascherati o travestiti incarnano la parte buia dell’ individuo, impersonificando un altro io, fittizio e paradossale forse tanto quanto quello che nella vita reale, impregnati di riti e consuetudini la maggior parte di noi è costretto a vivere.
(F.G.) Redazione Best Selected
Disilluso dal mondo ed in cerca di un punto di vista alternativo che si scontri col buonismo diffuso che i modelli culturali odierni ci propinano quotidianamente, il fotografo italiano Stefano Bonazzi vuole rompere gli schemi, infrangere la falsità di questi stessi modelli. I suoi personaggi si scontrano con la paura, con le inquietudini della società attuale e si rifugiano in un mondo surreale dai toni grigi, fondendosi con gli oggetti che di questa cultura sono simbolo ed utilizzandoli come maschere che li proteggono…
Barbara Picci Personal blog http://barbarapicci.wordpress.com
L’opera convince per la contemporaneità della tecnica e la scelta del soggetto, molto aderente al tema del concorso. La sensazione che se ne riceve è quella di uno sguardo cupo attraverso un campo profughi, evidenziando quindi il problema dell’accoglienza. La figura al centro dell’immagine non ha volto perché non ha patria, è apolide, è costretta al viaggio e alla migrazione pur essendo paradossalmente ancorata al suolo. L’espediente del casco rappresenta efficacemente un’immigrazione che troppo spesso ci appare come senza volto e che per questo rischia di farci dimenticare che quando parliamo di cittadinanza abbiamo a che fare con esseri umani in carne ed ossa come noi.
Giuria Premio Farben 2013 – Bologna
Fantasy becomes reality, or rather imposes itself. The imagined identity has seized the body and its materiality tilts from a dream to absurdity. The dream, poetic nonsense, dies from the seriousness of the one who wants to live. Our childish schizophrenia is a door, a possibility, but loses its magic as soon as it becomes a socket, a certainty.
Identity redemption can only live in intimacy. Like a revealed secret, it becomes empty of its meaning and its essence in contact with reality.
Trends My Tex World Messe Frankfurt France S.A.S. – 2013
Stefano Bonazzi è un artista coraggioso. Mentre la psicologia del “Mi piace” divampa generando un pubblico assertivo che raramente va oltre alla fatica di un click, la fotografia di Stefano chiede a ognuno di noi di fermarci a osservare. Ci chiede di prolungare il nostro dormiveglia per poterci interrogare sui fantasmi che popolano quello spaccato temporale tra la vita e la morte. Fantasmi intangibili, multifaccia, multiformi, che incarnano le paure della notte e il malessere del giorno che sta per iniziare. Fantasmi mascherati, cupi, effimeri, ma impauriti.
Stefano è un artista coraggioso perché le sue fotografie ci chiedono di fermarci e di osservare. Di riflettere e di rifletterci. È una fotografia faticosa, ma del resto, quale buona arte non lo è? Vi invito a dedicare il giusto tempo che ognuna di queste fotografie merita. Osservatele, gustatevele, rielaboratele. Ecco un approfondimento che ho avuto il piacere di fare con Stefano.
Me Vs. Photography Elisa Contessotto – 2014
Stefano Bonazzi è un visionario. Anzi, meglio: è una di quelle persone con cui ti potresti sedere a un tavolino di plastica fuori da un brutto circolo nel pieno della Bassa padana, con le zanzare che ti dissanguano e le auto che passano troppo veloci sulla provinciale, e rimanere lì tutta la notte ad ascoltarlo, grattandoti ogni tanto le punture.
Darlin Magazine Silvia Cannas Simontacchi
Ceci n’est pas une Photographie
La serie di Stefano Bonazzi s’intitola Nonsense eppure di senso ce n’è eccome.
Ogni immagine ha una cura maniacale, simile alla precisione di un chirurgo in sala operatoria, meticoloso. Pulito. Il suo bisturi è la penna grafica ed i punti di sutura sono la sua fantasia.
Chiamarle fotografie sarebbe comunque sbagliato, lui stesso le definisce composizioni digitali perché in effetti sono assemblement di elementi eterogenei, decontestualizzati e poi riuniti con un nuovo significato, dando vita ad un mondo parallelo e oscuro che strizza l’occhio alla pittura metafisica di De Chirico, con i suoi manichini e le atmosfere sospese.
In altre composizioni invece la linea si fa più tortuosa e la figura umana viene deformata, si liquefa come gli Orologi di un certo Dalì o si trasforma diventando parte integrante di un mondo surreale, ora è una lampada, ora è un divano. Altre volte il mannequin si fa carne consistente e la mano, il seno, il fianco di donna non possono che essere parte un corpo vero sdraiato su un letto sfatto, testimone inconsapevole di notti agitate.
Nonostante le immagini siano molto diverse tra di loro, per alcune sarebbe forse meglio parlare di di illustrazioni, c’è una costante: il volto è sempre celato, inesistente, in ogni caso assente ponendo un distacco notevole tra di loro e noi che li osserviamo.
La bombetta dell’uomo sulla panchina ci pare fin troppo familiare, presa in prestito direttamente dal 1964, così come i cieli nuvolosi azzurri e grigi.
Ceci n’est pas une photographie, avrebbe detto Magritte.
ArtAbout Magazine #22 Magazine Georgette Pavanati
Interpretazione dell’opera Stones
La fotografia “Stones” realizzata da Stefano Bonazzi, con la figura di questa donna accovacciata in primo piano, nella sua nudità e bellezza, ci porta in visione una “bella addormentata”, e con lei simbolicamente il momento del sogno, elemento fondante del pensiero surrealista sin dalle origini.
L’assenza di elementi secondari (vale a dire creati dall’uomo) nel paesaggio, inserisce
le Stones fra cielo e terra, in modo stranamente più magico che minaccioso, in un mondo primordiale, intonso.
Le Stones sono sferiche, perfette nella loro rotondità, non propriamente pietre quindi, come vorrebbe la traduzione letterale, ma piuttosto probabili pianeti, sottratti alla loro orbita e portati fra noi umani, sfuggendo con il permesso delle leggi del mondo onirico alle regole gravitazionali.
Il fascino di una fotografia ispirata dal sogno, è il fascino di un’immagine che usa gli elementi della realtà reale nel modo libero e fantasioso che caratterizza l’attività celebrale nel sonno, o meglio quello che noi ricordiamo di questa attività.
La nudità quindi, fisicità di un mondo vuoto di manufatti, ritorno alle origini della specie umana, ci riporta, in modo paritario agli animali, in una dimensione esistenziale che nega tutto ciò che è stato aggiunto al mondo così com’era; nega per farci ricordare come eravamo noi, come era il paesaggio senza costruzioni aggiunte, il cielo senza aeroplani.
La ricostruzione del mondo originale proposta dal surrealismo di Bonazzi è virtuale e sognata o sognante, non storica, non scienti ca, non politica.
È la statura psicologica del mondo onirico, il senso di mistero che ancora oggi caratterizza la sua presenza nella nostra vita quotidiana, che fanno del pensiero estetico surrealista una forza inattaccabile, vicina all’emotività di ogni singolo uomo, alla sua “privacy”, e di questa forza è impressa a fuoco ogni immagine nata sotto la sua ala.
Catalogo mostra VIRTUALITY LADDER – Milano Maria Dolores Cattaneo